Cancro ai polmoni nei fumatori e fattore ereditario, trovati i geni
Alcuni ricercatori britannici sostengono di aver trovato il collegamento genetico ereditario che lega lo sviluppo del cancro ai polmoni nei fumatori. Il professor Richard Houlston dell'Institute of Cancer Research Uk insieme ad altri colleghi ha individuato tre settori di DNA che sono responsabili del cancro al polmone nei fumatori, due delle aree influenzano addirittura il tipo di tumore che si andrà a formare. Il gruppo di ricerca ha individuato poi differenze specifiche associate al rischio cancro nei cromosomi 5, 6 e 15. Le persone con cambiamenti genetici al cromosoma 5 hanno una maggiore probabilità di sviluppare un tipo di tumore chiamato adenocarcinoma. Il cromosoma 6 invece influenza sia lo sviluppo dell' adenocarcinoma che di un altro tipo chiamato "carcinoma a cellule squamose". Infine il cromosoma 15 ha un ruolo importante nella decisione finale se il fumatore debba o uno sviluppare un tumore al polmone. Gli studiosi hanno calcolato che fumatori o ex amanti della sigaretta con questa predisposizione genetica hanno il 28% in più di sviluppare il cancro ai polmoni.Il rischio aumenta poi dell' 80% nei fumatori che possiedono due di queste varianti genetiche. "Questa ricerca ha dimostrato una certa dose di ereditarietà nello sviluppo del cancro ai polmoni e di che tipo di tumore si vada poi a formare, in ogni caso il fumo rimane il principale responsabile per la stragrande maggioranza dei casi", ha dichiarato il dottor Lesley Walker, direttore del centro informazioni del Cancer Research in Inghilterra che ha in parte finanziato la ricerca. "La cosa migliore che un fumatore può fare per ridurre il rischio è quello di smettere di fumare".
I risultati della ricerca sono pubblicati sulla rivista Cancer Research.
I risultati della ricerca sono pubblicati sulla rivista Cancer Research.
Passeggiare all' aria aperta, se c'è smog rischio tromboflebiti
Durante la bella stagione aumenta il desiderio di passeggiare all’aria aperta, è un'attività salutare purchè sia fatta lontano dai centri cittadini affollati da tubi di scappamento dei motori. È il suggerimento che nasce da una recente scoperta: la presenza nell’aria delle città di particelle pulviscolari, le cosiddette PM10, conseguenza dello smog soprattutto veicolare, è un fattore di rischio di danni venosi. Inoltre, com’è risaputo, è causa di gravi pericoli per l’apparato respiratorio. È stato un gruppo di studiosi capitanati dall’italiano Andrea Baccarelli, in servizio presso la prestigiosa Harvard Medical School di Boston, che ha recentemente pubblicato gli esiti di uno studio condotto sulla popolazione della Lombardia, a dimostrare come l’aumento dell’inquinamento atmosferico, ed in particolare del PM10, determina la crescita del rischio di sviluppare una trombosi a livello venoso.
La trombosi consiste nella occlusione del vaso ad opera di cellule del sangue, le piastrine, che aderendo fermamente fra di loro producono un vero e proprio “tappo” che blocca il flusso nel vaso. Il vaso occluso va incontro all’infiammazione della parete, la cosiddetta tromboflebite.
Prima di questo studio era stata dimostrata la correlazione tra inquinamento atmosferico e eventi cardiovascolari maggiori quali infarto del miocardio e ictus cerebrale. Per quanto questi eventi siano clinicamente più gravi, lo studio dimostra che l’aumento del rischio è maggiore per la trombosi venosa che per infarto ed ictus. Curiosamente, l’aumento del rischio di trombosi venosa è minore nelle donne, grazie alla attività protettrice degli ormoni femminili, della terapia anticoncezionale e ormonale sostitutiva. Questo studio ha prodotto accesi dibattiti clinici sui possibili meccanismi responsabili dell’aumento di trombosi. Resta il fatto però che quale che sia il meccanismo, l’esposizione ad elevate concentrazioni di PM10 deve essere inclusa tra i fattori di rischio per l’insorgenza di eventi vascolari trombotici.
La trombosi consiste nella occlusione del vaso ad opera di cellule del sangue, le piastrine, che aderendo fermamente fra di loro producono un vero e proprio “tappo” che blocca il flusso nel vaso. Il vaso occluso va incontro all’infiammazione della parete, la cosiddetta tromboflebite.
Prima di questo studio era stata dimostrata la correlazione tra inquinamento atmosferico e eventi cardiovascolari maggiori quali infarto del miocardio e ictus cerebrale. Per quanto questi eventi siano clinicamente più gravi, lo studio dimostra che l’aumento del rischio è maggiore per la trombosi venosa che per infarto ed ictus. Curiosamente, l’aumento del rischio di trombosi venosa è minore nelle donne, grazie alla attività protettrice degli ormoni femminili, della terapia anticoncezionale e ormonale sostitutiva. Questo studio ha prodotto accesi dibattiti clinici sui possibili meccanismi responsabili dell’aumento di trombosi. Resta il fatto però che quale che sia il meccanismo, l’esposizione ad elevate concentrazioni di PM10 deve essere inclusa tra i fattori di rischio per l’insorgenza di eventi vascolari trombotici.
Che cos'è l'andropausa, una menopausa maschile?
L'Andropausa, un “male” misterioso di cui si sente sempre più spesso parlare per indicare la “fisiologica” riduzione di appetito sessuale e capacità riproduttivi degli uomini in età avanzata. Ma è davvero così? Che cos'è l'andropausa? Si può generalizzare questo termine per ogni uomo che abbia superato i 50 anni? Mancanza di energia, calo del desiderio sessuale, riduzione del tono dell’umore: sono soltanto alcuni dei sintomi che possono comparire in circa il 20% degli uomini con l’avanzare dell’età e con la riduzione degli ormoni sessuali. Mentre nelle donne intorno ai 50 anni la produzione ovarica di estrogeni si riduce nettamente, e quindi si può parlare di menopausa poiché il processo è piuttosto rapido e avviene nell’arco di alcuni mesi o di qualche anno, nell’uomo il calo della produzione di ormoni sessuali è molto più graduale e può determinarsi nell’arco di decine di anni. Si verificano progressivamente modificazioni a livello fisico e mentale che non sempre vengono rilevate o che comunque hanno conseguenze diverse da individuo a individuo. Il termine Andropausa, alludendo alla menopausa femminile, indica il possibile presentarsi nell’uomo di un declino della produzione gonadica di steroidi e della fertilità. Ma nell’uomo sano questo declino avverrebbe molto lentamente: è stato dimostrato come con l’avanzare dell’età la proporzione di uomini con livelli di testosterone ridotti rispetto ai range di normalità aumenti significativamente. Bassi livelli dell’ormone possono ritrovarsi in meno dell’1% degli uomini di circa 40 anni, ma le percentuali salgono a più del 20% e del 40% sopra i 60 e gli 80 anni rispettivamente. Ciononostante esistono differenze interindividuali: infatti spesso uomini di 70 anni possono ancora essere fertili e, sebbene sia più probabile riscontrare livelli inferiori di testosterone in uomini anziani rispetto ai più giovani, molti individui over-80 (circa il 55%) continuano ad avere valori dell’ormone relativamente normali.
Quindi i termini “menopausa maschile” o andropausa appaiono impropri: si preferisce parlare di Sindrome da carenza di androgeni nel maschio di età avanzata – detta anche con l’acronimo LOH (Late Onset Hypogonadism). Superati i 40 anni la produzione del testosterone si riduce. La sua azione non è limitata alla funzione riproduttiva, ma gioca un importante ruolo su molteplici organi e apparati; quindi un suo deficit può accompagnarsi ad un ampio corredo sintomatologico coinvolgente il sistema cardiocircolatorio, con vampate di calore, rossore al viso e sudorazione profusa; l’umore e la funzione cognitiva, con irritabilità, nervosismo, insonnia, sensazione di malessere generale, carenza di energia, scarsa concentrazione, deficit della memoria a breve termine, depressione, diminuzione dell’autostima; la sfera sessuale, con riduzione del desiderio e dell’attività sessuale, erezioni modeste o assenti, calo della potenza dell’eiaculazione, riduzione del volume dell’eiaculato. Si rilevano inoltre riduzione di massa e forza muscolari, perdita di capelli e di peli, obesità addominale. Altri effetti metabolici della carenza di androgeni sono rappresentati da riduzione del colesterolo HDL e aumento del colesterolo LDL, con conseguente aumento del rischio di patologie cardiovascolari, ed osteoporosi, con aumentato rischio di fratture. I sintomi, i segni e le conseguenze metaboliche della carenza di androgeni sono in gran parte reversibili e possono essere corretti con la terapia sostitutiva. La diagnosi di tale condizione può risultare a volte difficile data la poca specificità dei sintomi: in generale in presenza del corredo sintomatologico suddetto e di un calo del testosterone plasmatico in un uomo di età maggiore a 40 anni si può porre diagnosi di Ipogonadismo età-correlato (LOH). Quando la carenza di androgeni assume connotazioni importanti sul piano fisico ed emotivo e tende ad incidere in maniera significativamente negativa sulla sessualità maschile, e quindi sulla qualità della vita non solo dell’uomo ma anche della coppia, può essere utile un trattamento sostitutivo con testosterone, disponibile in capsule, gel e fiale per iniezione intramuscolare anche a rilascio prolungato (una iniezione ogni 3 mesi). In realtà però sarebbe opportuno considerare dei cambiamenti in toto dello stile di vita, oltre alla sola terapia sostitutiva; una corretta alimentazione, un buon controllo metabolico glicemico e lipidico, una costante attività fisica e l’astensione da fumo e alcolici rappresentano un menù fondamentale per un “sano trascorrere dell’età”!
Quindi i termini “menopausa maschile” o andropausa appaiono impropri: si preferisce parlare di Sindrome da carenza di androgeni nel maschio di età avanzata – detta anche con l’acronimo LOH (Late Onset Hypogonadism). Superati i 40 anni la produzione del testosterone si riduce. La sua azione non è limitata alla funzione riproduttiva, ma gioca un importante ruolo su molteplici organi e apparati; quindi un suo deficit può accompagnarsi ad un ampio corredo sintomatologico coinvolgente il sistema cardiocircolatorio, con vampate di calore, rossore al viso e sudorazione profusa; l’umore e la funzione cognitiva, con irritabilità, nervosismo, insonnia, sensazione di malessere generale, carenza di energia, scarsa concentrazione, deficit della memoria a breve termine, depressione, diminuzione dell’autostima; la sfera sessuale, con riduzione del desiderio e dell’attività sessuale, erezioni modeste o assenti, calo della potenza dell’eiaculazione, riduzione del volume dell’eiaculato. Si rilevano inoltre riduzione di massa e forza muscolari, perdita di capelli e di peli, obesità addominale. Altri effetti metabolici della carenza di androgeni sono rappresentati da riduzione del colesterolo HDL e aumento del colesterolo LDL, con conseguente aumento del rischio di patologie cardiovascolari, ed osteoporosi, con aumentato rischio di fratture. I sintomi, i segni e le conseguenze metaboliche della carenza di androgeni sono in gran parte reversibili e possono essere corretti con la terapia sostitutiva. La diagnosi di tale condizione può risultare a volte difficile data la poca specificità dei sintomi: in generale in presenza del corredo sintomatologico suddetto e di un calo del testosterone plasmatico in un uomo di età maggiore a 40 anni si può porre diagnosi di Ipogonadismo età-correlato (LOH). Quando la carenza di androgeni assume connotazioni importanti sul piano fisico ed emotivo e tende ad incidere in maniera significativamente negativa sulla sessualità maschile, e quindi sulla qualità della vita non solo dell’uomo ma anche della coppia, può essere utile un trattamento sostitutivo con testosterone, disponibile in capsule, gel e fiale per iniezione intramuscolare anche a rilascio prolungato (una iniezione ogni 3 mesi). In realtà però sarebbe opportuno considerare dei cambiamenti in toto dello stile di vita, oltre alla sola terapia sostitutiva; una corretta alimentazione, un buon controllo metabolico glicemico e lipidico, una costante attività fisica e l’astensione da fumo e alcolici rappresentano un menù fondamentale per un “sano trascorrere dell’età”!